10.15.2012

L'Inferno di Dante: il Canto V (parte I)

I lussuriosi - William Blake (1824-1827)
Pen, inchiostro e acquerello. 374x530mm.
Birmingham museum and Art Gallery






Il V Canto dell’Inferno segna un ritorno alla profonda drammaticità del III ed è dedicato ai peccatori carnali, ai traditori, a coloro che hanno lasciato che il desiderio calpestasse la ragione.
Questo tipo di amore, in cui piacere e bellezza prevalgono su valori superiori, è considerato da Dante illegittimo, nonché prima pena dell’Inferno. Tuttavia questo canto non si limita a descrivere  peccati e peccatori, ma parla fondamentalmente di letteratura e, dunque, nasconde anche una natura autobiografica: Dante aveva dedicato parte della sua giovinezza di poeta proprio a questo tipo d’amore, ma ora, più maturo e consapevole, ripensa e rivede il suo passato poetico e dottrinale, gli ideali di comportamento a cui si è attenuto in base alla trattatistica cortese e in base a modelli stilnovisti. Giudica, cioè, il se stesso giovane e le sue amicizie giovanili (tra cui Guido Cavalcanti, al quale, appunto, riserva un posto all’Inferno).
Dopo aver fatto i conti con i Classici, ora Dante si trova a dover fare i conti con i suoi contemporanei, con la letteratura della sua epoca, di natura mondano-erotica, tramandata dall’antichità fino all’Età Cortese.
Dante, ad ogni modo, non fa del V Canto un trattato dottrinale, ma lo divide in due parti simmetriche e di uguale misura: i primi settanta versi (dopo un’introduzione drammatica, in cui figura Minosse) sono dedicati alla descrizione dei peccatori carnali; la seconda parte invece indica coloro che la passione d’amore portò alla morte, spesso una morte violenta. Dopo una terzina di passaggio, viene poi introdotto il primo personaggio infernale con cui Dante dialoga, cioè Francesca da Rimini. Ma giudicando Francesca, Dante giudica parte della sua stessa vita (impersonata soprattutto dalla figura di Cavalcanti), quella caratterizzata dall’innamoramento classico/cortese per la bellezza che l’uomo non è in grado di contrastare, dall’amore come una forza tale che costringe ad amare.

Il grande problema interpretativo, che intrigò gran parte della critica, era quale fosse l’atteggiamento di Dante nei confronti di Francesca, o meglio, della coppia Paolo e Francesca. Dante ripete infatti molte volte il termine “pietà”: ma che valore bisognava dargli? Per scoprirlo, è stato necessario ricostruire l’integrità del Canto, ritenuto invece da sempre frammentario.
Per Foscolo, esso ha una duplice sfumatura: da una parte, quella data dall’uomo del medioevo (cristiano ortodosso e teologo) che condanna l’amore fisico; dall’altra, quella che deriva dal poeta, il quale comprende e non giudica, ma anzi si schiera emotivamente con la sua eroina rendendola magnifica a dispetto della sua collocazione nel fondo dell’Inferno.
Accolse questa interpretazione anche De Sanctis, non particolarmente incline al medioevo cristiano: Francesca era dunque l’eroina magnifica condannata dal teologo, ma perdonata dall’uomo.
Croce, nel 1921, scrisse il libro “La poesia di Dante” in cui sostenne la tesi secondo cui la Commedia di Dante era una bellissima antologia di grandi esempi poetici tenuti insieme da una noiosa struttura (ovvero l’espediente del viaggio, le parti dottrinali, le descrizioni di albe e tramonti, ecc.). Interlocutori di Croce furono Gramsci e Gentile. Quest’ultimo scrisse anch’egli un libro per contrastare l’idea che il V Canto non fosse altro che una lunga e noiosa serie di nomi di morti, coronata infine dallo splendido episodio dell’incontro con Francesca.
Oggi si crede che la scena di Francesca non sarebbe comprensibile senza quella parte iniziale che introduce nell’atmosfera e si crede anche che quell’elenco non sia fine a se stesso ma parta significativamente da Semiramide per arrivare fino a Tristano (cavaliere del ciclo bretone e molto in voga nel Duecento e Trecento).
Dunque, la “pietà” di Dante è quel moto di partecipazione e di comprensione tanto intenso e partecipe, perché il personaggio in questione è un personaggio di elevato sentire (ricorrono spesso infatti le parole “dolce” e “leggero”, aggettivi che ci portano a un personaggio di alta levatura, morale e sentimentale).
L’interrogativo che dilania la mente di Dante è come due persone, appunto così elevate, abbiano potuto commettere un simile atto (amare il cognato, a quell’epoca, non era considerato solo adulterio – come quello di Tristano – ma anche un fatto incestuoso) e perché dunque, da personaggi destinati al Cielo, siano potuti finire all’Inferno. Il poeta, alla fine, non troverà soluzione alla sua domanda e, colto da un travaglio interiore così intenso da portare alla perdita dei sensi, ne sverrà.
Resta però il problema della letteratura che corrompe. Quella letteratura, la letteratura cortese (identificabile nei trattati come il “De amore” di Cappellano, nelle opere di passione come le cavalcantiane, il cui autore ebbe a disdegno “Beatrice”, ovvero l’amore come spiritualità, continuando invece esaltarlo come fisicità), che sarà interpretata da Francesca, la quale, addirittura, ne parafraserà della parti. Per Contini, in effetti, Francesca era la classica lettrice di romanzi di Provincia e, a quella stessa etica, conformò la sua vita.

Canto V - Giovanni Stradano
Testo (vv. 1-39) 




Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
"O tu che vieni al doloroso ospizio",
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
"guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!".
E ’l duca mio a lui: "Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare".
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
Dante e Virgilio incontrano i fantasmi di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta nell'Inferno - Ary Scheffer (1835)
Olio su tela
172,7x 238,8 cm
Walace Collection (Original Version dor the Duc d'Orleans), Londra
Analisi del testo
Così discesi … a guaio: “Così discesi dal primo cerchio giù nel secondo che è di minore spazio rispetto al precedente ma che racchiude in sé un dolore maggiore, tale da stimolare i dannati a lamentarsi”.
Lo spazio diminuisce, ma un dolore più intenso spinge i dannati a lamentarsi, mentre nel cerchio precedente l’unica forma di lamento erano i sospiri.
Stavvi Minosse … giù sia messa: “Vi siede orribilmente Minosse, e ringhia: esamina le colpe all’entrata dell’Inferno, giudica e invia ad un dato girone il peccatore in base agli avviluppamenti (della sua coda). Intendo dire che quando l’anima dannata si presenta dinanzi a lui, confessa ogni sua colpa; e quel conoscitore dei peccati e delle pene decide qual è quella più consona per tale anima; si cinge il corpo con la coda tante volte quanti sono i cerchi che avrebbe dovuto scendere giù per arrivare a quello che le toccava”.
Questo passo induce Dante a fare una sorta di nota a se stesso (creatore della struttura dell’Inferno e giudice per tutti gli uomini passati, presenti e persino futuri): l’anima che si presenta davanti a Minosse subito confessa ogni colpa a quella figura così sapiente dei peccati, della quale sottolinea l’atteggiamento di giudice-diavolo (e il fatto che le anime dannate vadano “giù”). Poi, riprende quanto detto prima.
Sempre dinanzi … volte: “Dinanzi a lui le anime che attendono il giudizio sono sempre molte,  una dopo l’altra vanno al giudizio di Minosse dicono (i loro peccati) e ascoltano (la pena che spetta loro) e sono precipitate nel cerchio assegnato”.
Dante sottolinea il gran numero di anime (e quindi di peccatori) presenti all’Inferno.
«O tu che vien … l’intrate!»: «O tu che giungi in questo luogo di dolore», disse Minosse rivolto a me, quando mi vide, interrompendo l’esercizio del suo così importante compito, «Sta attento a come entri e attento alla persona di cui ti fidi; non farti ingannare dall’ampiezza dell’entrata!»”.
Due sono i punti da analizzare:
Uno riguarda il fatto che Minosse dica a Dante di stare attento a Virgilio. Questa affermazione è stata interpretata in vari modi: il primo suggerisce che Minosse non stia veramente dicendo che Virgilio è uno spirito di cui non bisogna fidarsi ma che, piuttosto, stia dicendo che per Dante (che è ancora vivo) la discesa in questa parte dell’Inferno sarà molto più difficoltosa e pericolosa della precedente e quindi deve ascoltare con attenzione le parole della sua guida. Il secondo, invece, vuole vedere nelle parole di Minosse un corrispettivo di quelle di Caronte che, non sapendo del volere divino, cerca di intimidire Dante come normalmente fa con tutte le altre anime; dunque Minosse starebbe cercando di dissuadere Dante dall’entrare spaventandolo e instillandogli il dubbio su Virgilio. La terza interpretazione, infine, ritiene che Minosse metta in guardia Dante perché il poeta non segua una persona che non merita fiducia, dato che forse Virgilio non può trarlo in salvo dall’Inferno, essendo anche lui creatura infernale.
Il secondo punto da notare è che entrare nella via del peccato è facile perché essa è spaziosa, mentre uscirne è difficoltoso, infatti la strada va restringendosi (l’ampiezza della via dell’Inferno ha una caratterizzazione sia reale – rappresentata dalla larghezza verificabile con gli occhi – sia simbolica – ovvero il fatto che in superficie compaiono le pene più leggere mentre scendendo il bene si affievolisce, inglobato dal male).
E ‘l duca mio … non dimandare”: “E Virgilio, mia guida, gli disse: «perché gridi in continuazione? Non opporti al suo andare: volle così Dio e non domandare oltre!»”.
La formula è la stessa usata in precedenza con Caronte.
Or  incomincian … è combattuto: “Ora cominciai a sentire i lamenti provocati dallo strazio e dal dolore. Sono giunto nel luogo dove sono percosso da continui lamenti (oppure: sono percosso moralmente e fisicamente da un coro di lamenti). Io giunsi in un luogo privo di ogni luce che muggisce come fa il mare in tempesta, quando è sconvolto da venti che provengono da direzioni opposte”.
Questo è il primo contatto di Dante col vero e proprio Inferno: solo adesso percepisce lo strazio dei veri lamenti di dolore, mentre finora aveva sentito solo sospiri.
“Buio” e “muggire del mare” rappresentano una sinestesia con contaminazione di sensi visivi e uditivi.
La bufera infernal … talento: “La bufera infernale li rapisce e li porta con sé[*], fa loro del male. Quando giungono davanti alla rovina, alzano grida acute e pianti e lamenti; qui bestemmiano contro la potenza divina. Compresi che a una pena di tal genere sono condannati i peccatori carnali, i lussuriosi, che sottomisero la loro ragione al desiderio”.
La descrizione della prima pena infernale per contrappasso analogico si colloca dopo l’improvviso cambio di atmosfera (dal castello al luogo di lamenti e pianti): coloro che in vita furono travolti dalla tempesta dell’amore e non solo non tentarono di resisterle, ma vi si abbandonarono volontariamente, ora saranno travolti in eterno da una bufera incessante.
La “rovina”, se si tiene conto del realismo dantesco, potrebbe essere la frana o gli scoscendimenti avvenuti nell’Inferno a causa della venuta di Cristo per salvare i patriarchi; per altri invece è il centro del vortice, dove il vento turbina più forte e le anime piangono insieme (idea resa anche dalla figura retorica dell’accumulazione) e bestemmiano Dio.
Coloro che, per il desiderio, stravolsero le regole della vita, quelle regole che ci sono date dalla religione (infatti in Dante, quando si parla di “ragione”, si deve intendere sempre “etica cristiana”), dovranno poi pagare nella morte. In questo caso, dalla pena, Dante desume il peccatore, rendendo così il suo modo rappresentare il girone molto realistico (anche se la pensa l’ha inventata lui).

Paolo e Francesca da Rimini - Dante Gabriel Rossetti (1855)
Acquarello su carta
Tate Gallery, Londra



[*] Dal latino RAPIO.

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