7.16.2012

Eugenio Montale - Upupa, ilare uccello calunniato


Upupa, ilare uccello calunniato (poesia di cui non rimane traccia nei manoscritti ma che, pur essendo senza data, può essere fatta risalire al 1924 a causa delle assonanze che la legano a Quasi una fantasia) fa parte della raccolta montaliana – dal forte impianto romanzesco – intitolata Ossi di seppia[1].
Questo volume narra, più o meno sistematicamente, le vicende di un io lirico che, dopo aver assaporato il miracolo (da intendere laicamente come il momento in cui le leggi di natura, interrompendosi, si fanno veicolo di un’accorata ricerca da parte dell’uomo, il quale desidera conoscere la causa, il senso e il fine assoluti della sua nascita e della sua vita) nei Limoni[2], cerca di riviverlo e, per questo, ambisce a farsi ciottolo del mare, ovvero desidera abbandonare ogni traccia d’identità personale per lasciarsi inglobare in un’entità più grande e assoluta.
Tuttavia questo io lirico, collezionando una serie di fallimenti (sempre maggiori) e di ineluttabili[3] ricadute nell’illusione, giungerà infine ad assumere un volto, una veste e un nome: quello di Arsenio[4]. Un’identità definita che, tuttavia, non gli impedirà di continuare a sperare – benché ora sia pienamente cosciente della sua irrealizzabilità – nel miracolo.
Ed è proprio nell’economia di questa trama (specificamente, nel momento in cui ormai il concetto di miracolo sembra essere stato del tutto rimosso) che si inserisce Upupa, ilare uccello calunniato, che, secondo l’interpretazione di T. Arvigo, dovrebbe essere considerata come un’icona attraverso la quale entra in gioco il meccanismo del “tempo sospeso”, che rappresenta la libertà del volere, la personificazione di quel misterioso stato di grazia che, secondo Schopenhauer, fa sì che finalmente – seppure per un attimo – la ruota di Issione si arresti. Icona che, peraltro, precede Sul muro grafito, la lirica che, presentando un’immagine di serenità nel presente e di speranza nel futuro, chiude l’eponima seconda sezione di Ossi di seppia.

TESTO

Upupa[5], ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l'aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;
nunzio primaverile
[6], upupa, come
per te il tempo s'arresta,
non muore più il Febbraio,
come tutto di fuori si protende
al muover del tuo capo,
aligero folletto, e tu lo ignori
.



Parafrasi:

O upupa, allegro uccello diffamato (perché accostato alla notte e al malaugurio o perché ritenuto impoetico) dai poeti, che giri la tua testa ornata di piume erettili stando sopra la pertica che sovrasta il pollaio e, come se fossi uno di quei galletti segnavento di ferro, giri al mutare delle correnti; o upupa, annunciatore della primavera, tu ignori come, grazie al tuo arrivo (oppure “grazie al tuo essere diverso”) il tempo si arresta; ignori come faccia Febbraio a non morire più; come grazie a te, folletto dotato di ali, tutto si protende in fuori (oppure “tutto sembra sbocciare” o “essere messo in moto”).

Con Upupa, ilare uccello calunniato il poeta ci pone davanti ad un atteggiamento miracolistico o a un evento che, per quanto si situi dopo la presa coscienza dell’assenza di miracolo, rimanda ad esso per l’ennesima volta, attraverso la descrizione di un elemento del mondo animale (ovvero, uno di quegli elementi attraverso cui l’io lirico richiede il miracolo: il mare, la donna, gli animali, ecc.) che viene introdotto nel testo senza alcuna giustificazione: l’upupa può arrestare il tempo.
Il lettore, infatti, nella lirica di poco precedente, Cigola la carrucola nel pozzo, ha letto che caratteristica del miracolo è quella di rivoluzionare il tempo (benché sapesse tutto ciò già da Falsetto, poesia dei Movimenti, in cui Esterina non si sentiva minacciata dai suoi vent’anni, né dal futuro, perché anche lei era capace di arrestare il tempo) e, in questo testo, l’upupa riesce a farlo, risultando quindi come è una sorta di divinità.
Tuttavia, quest’upupa presenta una caratteristica che ridimensiona il suo essere portatrice di miracolo: ignora come faccia. E lo ignora perché l’upupa appartiene al ciclo naturale e non immagina che al di fuori di questo possa esserci qualcos’altro.
Accettando questa ignoranza da parte dell’uccello, dobbiamo accettare anche un’assenza di comunicazione vera (tra upupa e uomo): l’upupa porta, sì, un miracolo, ma non lo comunica né lo spiega. Di conseguenza, va notato che il porre enfasi nel "tu lo ignori", rimanda ad una mancanza, ad una limitazione dell’upupa come divinità, dato che non è pensabile che una divinità ignori qualcosa.
Ma l’altra questione che non può essere taciuta è il fatto che, per quanto inspiegabile ed inspiegato, il miracolo avvenga lo stesso e che l’io lirico non sembri parteciparvi.
L’io lirico infatti non ha voce in capitolo, tutta la lirica è proiettata verso l’upupa (e se anche l’io lirico tentasse di “fare qualcosa” finirebbe solo col baciare un riflesso in un secchio d’acqua la cui superficie, al contatto con le labbra del soggetto, si increspa fino a farne dissolvere l’immagine[7]).

Da questa lirica, e da Sul muro grafito, si ricava che il finale della seconda sezione porta verso il miracolo: ne asserisce l’esistenza, non nega la possibilità che esso si realizzi, e tuttavia non lo mette in pratica. La seconda sezione, in definitiva, si conclude al pari della prima su un’immagine pacificata, metafisica, superiore; ma non come realizzazione del miracolo, bensì come sua possibilità di esistenza. L’eventuale realizzazione se mai ci sarà, avverrò nel futuro (l’unico tempo a noi ignoto e l’unico ancora in grado di riservarci sorprese).











[1] Prima edizione 1925, seconda ed. 1928, ed. definitiva 1980.
[2] I limoni è il testo che apre i Movimenti, ovvero la prima sezione dell’opera, preceduta solamente da un’introduzione generale (e cronologicamente successiva a tutte le altre poesie, stando alla finzione del romanzo) In limine.
[3] Perché insite nella natura umana che costantemente si trova costretta a misurarsi con l’assoluto, unica vera unità di misura di ogni condizione vissuta o da vivere.
[4] Questo, non a caso, è l’unico nome proprio a figurare come titolo di una poesia, la quale, per giunta, regge da sola l’intera seconda sottosezione di Meriggi e ombre, quarta e ultima sezione (a cui fa seguito solo Riviere) di Ossi di seppia.
[5] L’immagine dell’upupa è stata utilizzata, tra gli altri poeti, da Parini (che lo ha descritto nel Giorno come una delle creature mostruose che popolano la notte), da Foscolo (che nei Sepolcri lo raffigura come uccello lugubre, quasi “necrofilo” e caratterizzato da un verso luttuoso) e da Carducci (che lo definisce “upupa funebre” in Giambi ed epodi).
[6] L’upupa arriva in Italia a primavera, ecco perché "nunzio primaverile".
[7] Immagine di Cigola la carrucola nel pozzo.

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