8.03.2012

Giacomo Leopardi - L'infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo
[1], ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Un manoscritto autografo di Leopardi.



Composto a Recanati nel 1819, L’infinito è il primo degli idilli, e forse il più conosciuto e celebrato dei Canti[2].
In esso, Leopardi rompe con la tradizione stilistica precedente: questo componimento è un “piccolo idillio”, genere che prima non esisteva, per di più, egli scrive in endecasillabi sciolti, ovvero infrange il rapporto tra metro e sintassi creando un problema di lettura e/o recitazione.
Ma il problema di quando si innova un genere è che questo è un fatto cruciale: prima c’era un metro che garantiva la “patente di poeta” all’autore e quella di “poesia” al testo scritto, ma nel momento in cui questa tradizione viene infranta, chi garantisce che l’autore sta scrivendo una poesia?

In questi casi, è solo il lettore che può ritenere un testo “poesia”.

L'esperienza descritta dal poeta è quella dello smarrimento di sé e del contatto con il mondo circostante attraverso l’abbandono all’immaginazione e al pensiero dell’infinito. Si tratta anche di un testo di fondamentale importanza per la comprensione della poetica leopardiana del vado e dell’indefinito e della Teoria del piacere (espressa nello Zibaldone, 646-648. Secondo Leopardi, la mente umana è naturalmente portata a pensare e a desiderare senza limiti, il che genera in essa un’esperienza di piacere, proprio come l’abbandonarsi all’immaginazione, in un viaggio intellettuale al di là dei limiti spazio-temporali. E allo stesso modo, l’esperienza dell’infinito è paragonabile all’amore e alla passione confusa, incontenibile, vaga, indefinita che porta con sé e che è maggiore di qualunque altra. Ma la ricerca dell’assoluto non va intesa in chiave metafisica, bensì sensistica in quanto la percezione dell’immensità e il conseguente smarrirsi in essa da parte della mente sono indici inequivocabili della volontà e del desiderio dell’animo di uscire dai limiti dettati dalla propria natura mortale e sensibile. Leopardi, come l’uomo fichtiano, non si cimenta nello sforzo asintotico di rimuovere l’ostacolo – la siepe – che gli impedisce di uscire dalla condizione di semplice uomo per natura “grande e infelice”. La lascia lì dove si trova, ma permette che la mente, grazie all’immaginazione, la oltrepassi, librandosi al di sopra e al di là di ogni limite fisico).

La prima parte del componimento (dal v.1 al v.8) mostra un poeta-spettatore nel presente, seduto sul colle ad osservare il paesaggio e questo rievoca in lui la sensazione di una gioia passata che però non si è mai spenta (la poesia infatti si apre con un verbo al passato “fu”, ma prosegue con altri sempre al presente, per via del ripetersi dell’esperienza). Eppure di questo paesaggio può vederne solo una parte, in quanto la visuale è parzialmente oscurata da una siepe. Siepe che rappresenta però solo un ostacolo fisico che impedisce la percezione sensoriale (in questo caso, visiva) ma non un ostacolo mentale (giacché, in questa seconda dimensione, funge addirittura da stimolo all’immaginazione che arriva così a cogliere ciò che i sensi non riescono, lasciando che la mente salti nel vuoto). Questo ostacolo non può che far trasalire Leopardi: “ove per poco il cor non si spaura”.

La seconda sezione del testo va dal v.8 al v.11: non appena il poeta ode lo “stormir fra queste piante” del vento, viene immediatamente riportato alla realtà e, dal cambiamento brusco dall’“infinito silenzio” alla “voce” del vento, si genera un paragone, da cui a sua volta nasce una profonda riflessione sull’infinità del tempo naturale che schiaccia e annienta il breve vissuto umano.

È tale riflessione che, nella terza parte (dal v.11 al v.13), conduce nuovamente (senza bisogno di ripassare per l’esperienza sensoriale) al pensiero dell’immensità, al ricordo delle epoche passate, alla constatazione di quella presente e il suo stesso suono.

Nella quarta sezione (vv.13-15), Leopardi ha ormai compiuto un viaggio della mente nello spazio e nel tempo, si è abbandonato, lasciando che il suo pensiero annegasse nell’immensità, naufragasse nell’infinito. Tale viaggio però non si conclude negativamente (come invece le due metafore parrebbero suggerire), ma dando vita ad una specie di ringkomposition che parte dal colle che gli fu “caro” fino ad arrivare ad mare sterminato in cui “dolce” è il naufragare. Questo rovesciamento serve dunque ad indicare non lo smarrimento o la perdita, ma l’esperienza estatica e il sondaggio del sublime. L’obiettivo leopardiano è quello di far disperdere il lettore, che si ritrova sballottato tra un passato (che è il momento in cui si è consumata l’azione) e un presente (in cui lo si sta facendo, mentre si dice che è passata) per creare l’illusione di stare vivendo in contemporanea passato e presente. Leopardi sta cercando di far vivere al lettore due esperienze contemporanee che la logica mortale a cui siamo condannati ci impedisce. Leopardi crede di essere riuscito nel suo intento (è per questo che L’infinito  è diventato un testo canonico) e per raggiungerlo ha chiesto la partecipazione del lettore (la poesia infatti ha la sua ragione d’essere nel moto del lettore, del quale necessita per accendere il proprio motore), ha rotto una tradizione contenutistica e presentato un io, il quale vive una condizione individuale e irripetibile (che cerca di riportarla al pubblico e che è l’opposto, ad esempio, della descrizione dell’amore per gli Stilnovisti, che avveniva attraverso un codice prestabilito e condiviso), ha infranto le tradizionali regole stilistiche. 

Ermo”, “ultimo orizzonte”, “interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”, “infinito silenzio”, “eterno”, “immensità”, “naufragar”, “mare” sono tutti termini e locuzioni che producono la suggestione dell’infinito (anche grazie al fatto che spesso si trovano a fine verso, intermezzati da enjambement che contribuiscono a prolungarne la durata).
Ma la sensazione dell’infinito è suggerita anche dalla lunghezza degli aggettivi (il cui numero di sillabe oscilla tra 3 e 5), dalla ripetizione della desinenza del gerundio (es. v.4), dall’allitterazione della “a” con ripercussioni sul piano immaginifico, dalle inversioni soggetto-oggetto, dal gran numero di sinonimi della parola chiave (appunto infinito), dal fonosimbolismo, ecc.

Alla quarta riga si trova la parola più problematica per la critica, e la questione è: a cosa si oppone quel “ma”? Alcuni, per risolvere il problema, lo hanno interpretato come un “mentre”, o un “pur non potendo”.

Infine, ha grande rilevanza per la comprensione di questo componimento, l'uso che l'autore fa dei dimostrativi: nei primi versi, essi sono utilizzati per indicare realtà tangibili e vicine al poeta, mentre, negli ultimi, individuano gli elementi che solo la mente ha vicini e può cogliere (se lasciata andare).







[1] Mi creo nella mente, mi rappresento un’immagine.
[2] I Canti (di cui ci sono tre diverse edizioni: 1831, 1835 e 1845) raccolgono la produzione in versi di Giacomo Leopardi. L’edizione definitiva (e postuma) fu pubblicata da Antonio Ranieri sulla base delle correzioni dell’autore e annovera 41 liriche composte fra il 1818 e il 1837, ognuna contrassegnata da un titolo e un numero d’ordine. Il metro più rilevante è la canzone libera in endecasillabi e settenari in cui compare un andamento ritmico più libero del testo e del pensiero. La raccolta, così come la stessa produzione poetica dell'autore, è divisa in tre fasi:
Il primo tempo o fase delle canzoni (1818-1823) e della poesia idillica.
Le prime due canzoni contenutevi – All’Italia e Sopra il monumento di Dante – sono sintesi del pensiero estetico-filosofico di Leopardi formatosi con la lettura degli illuministi francesi. Esprime poi concetti fondamentali della sua poetica originaria: come i romantici, anch’egli registra un forte senso della discontinuità storico-culturale fra gli antichi e i moderni, ma, proprio per questo, a differenza dei romantici, rifiuta l’avvento di un’arte spirituale e consapevole, la quale cancelli le primigenie illusioni e il diletto che da esse deriva all’uomo contemporaneo nella stagione incontaminata dell’infanzia. Le canzoni del 1818 esaltano l’illustre ricordo degli esempi, non solo antichi, di eroismo e di sprezzo della vita, in agonistica antitesi con il degrado e con la decadenza morale dell’Italia della Restaurazione. L’esperienza lirica di Leopardi è anzitutto strumento di rilevazione integrale della soggettività, lo dimostrano la ricchezza dei motivi autobiografici degli idilli (tra cui L’infinito) e lo sviluppo dei contenuti delle canzoni. Negli idilli Leopardi dà soprattutto voce al “piacere dell’immaginazione” attraverso la ricerca di un’espressività polemica, capace di rendere le percezioni più vaghe e inafferrabili, quel senso di dolce indeterminazione che soddisfa l’istanza edonistica e irrazionale dell’uomo. Contemporaneamente, la definitiva “conversione filosofica” induce una sfiducia crescente nei confronti del potere consolatorio delle illusioni, e dunque nell’effettiva possibilità di recuperare almeno la prospettiva storica della felicità naturale. Ne è testimone il percorso delle otto canzoni degli anni ’20.
Il secondo tempo o fase delle grandi canzoni libere.
Tra il 1823 e il 1827 Leopardi abbandona la lirica per dedicarsi alle Operette morali (come Il dialogo della Natura e di un islandese) in cui approfondisce la propria filosofia “negativa”, fondata su una “teoria del piacere” di matrice sensistica e meccanicistica che imputa, senza più distinzioni, la causa del dolore umano alla sproporzione tra l’illimitato bisogno di felicità dell’individuo e l’oggettiva scarsezza delle opportunità di soddisfacimento. L’esistenza stessa è causa di dolore – è infatti questa la fase del pessimismo cosmico leopardiano (connotato dall’irreversibile crisi della fiducia nella natura benigna che ora diventa “matrigna” e dalla ridiscussione del ruolo della civiltà e dello sviluppo del pensiero razionale). Tuttavia in questa stessa fase si inserisce il lieto soggiorno pisano coincidente anche con la rinascita della vena lirica di Leopardi (il ciclo pisano-recanatese) come tappa del percorso della speculazione filosofico-materialistica; tuttavia egli non intende recuperare il valore delle illusioni, analizza il flusso delle emozioni e delle sensazioni che inducono nell’uomo la nostalgia e lo struggimento per una stagione e per una vita di gioia e di giovinezza irrimediabilmente consumate e distrutte. La lirica delle grandi canzoni leopardiane, caduta ogni contrapposizione tra poesia e filosofia, denuncia la scoperta amara della verità e della crudeltà degli “inganni” di una natura sempre e per sempre matrigna.
L’ultimo tempo o fase dai canti fiorentini alla Ginestra.
L’abbandono definitivo di Recanati e le più impegnative relazioni con i contesti culturali di Firenze e Napoli rappresentano per Leopardi il veicolo di nuove e decisive esperienze di ordine psicologico e speculativo. La bellissima Fanny Targioni Tozzetti gli ispira le liriche del “Ciclo di Aspasia” (dal nome dell’amante dello statista greco Pericle) in cui l’amore è una vicenda interiore totalizzante e violenta perché capace di fomentare l’io contro i limiti della condizione umana. L’istanza di massima felicità corrisponde alla completa cessazione del dolore. Il tema della morte compare nelle “canzoni sepolcrali” come condizione tragica di chi scompare (ma che è comunque preferibile a quella dei vivi costretti a sperimentare la perdita dei propri cari). Il confronto con le posizioni moderate, liberali, progressiste, cattoliche e spiritualiste degli intellettuali del tempo acuisce in Leopardi una coscienza orgogliosa della sua visione del mondo pessimistica e materialistica che si rivela a volte in chiave satirica e demistificante, altre volte in chiave negativa e anti-idealistica. Sintesi di questa visione è La ginestra o il fiore del deserto (denuncia e proposta si mescolano), che racchiude anche il motivo della solidarietà: l’uomo deve piegare il capo davanti alle crudeltà del proprio destino, abbandonando ogni facile ottimismo consolatorio, nella convinzione che l’unica reazione possibile risieda in un’alleanza di verità, fratellanza e mutuo soccorso tra tutti gli esseri umani. In questa terza fase si mantiene fedele allo schema della canzone libera ma ne esaurisce le potenzialità sia dal punto di vista dell’incisività espressiva (come in A se stesso), sia da quello dell’ampia argomentazione (appunto, La ginestra).

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